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Tra materia e caso

Tra materia e caso

Quello che non vorremmo dal futuro delle nostre progenie è insito nei beni che vorremmo garantire loro: benessere e comodità. Nella forma attuale esistono da poco tempo grazie ad un lungo periodo di pace per i paesi occidentali che ha reso possibile lo sviluppo di una cultura dell’egoismo materiale e del disimpegno nel confort dell’automazione diffusa la cui logica conseguenza è la meccanizzazione delle esistenze.

Le radici del pensiero unico

Oggi molti di coloro che criticano l’utilizzo dei vaccino per sradicare la componente umana delle persone sembrano non rendersi conto di quanto materialistico sia questo stesso pensiero. Non può certo bastare un vaccino per “estirpare” l’anima e pensarla in questo modo rende quelli che vengono tacciati di complottismo ancora più “disumani” di quelli che vanno combattendo. E si badi bene che non ho certamente alcuna stima di questi ultimi, ma semplicemente voglio sottolineare quanto collusiva possa essere la posizione di chi vede solo possibilità dialettiche (A o Non-A, bene o male, bianco o nero; tertium non datur).

La “de-spiritualizzazione” dell’essere umano come istanza sociale è sempre esistita e spesso proprio nel nucleo delle maggiori religioni storiche prima ancora che nella politica e nell’economia.

Ero ancora studente, quarant’anni fa, quando si era già iniziato a fare scomparire lo studio delle radici storiche da molte discipline di studio, prima — e forse più grave — di tutte proprio la medicina. Un medico quarantenne oggi perlopiù arriva a pensare che Ippocrate possa essere uno stregone, un filosofo o un giudice che ha inventato una nuova forma di giuramento ma, se anche dovesse dovesse sapere che può essere considerato uno dei padri della medicina, è ben difficile che ne conosca le ragioni ed è ancor più difficile che, magari arrivando a conoscere il significato del termine “taumaturgo” sappia quali possano essere le sue origini.

E che non si tratti di una questione meramente nozionistica dovrebbe essere lapalissiano a tutti ma invece non è così neppure a molti luminari. La ragione è probabilmente perché dimenticare ci fa sentire liberi dai tanti debiti che abbiamo contratto nei confronti dei milioni di esseri viventi che ci hanno preceduto le cui esistenze si perdono nei millenni dei millenni — e non è un modo di dire.

Naufraghi della storia

Uno dei libri più importanti dei miei studi universitari si intitolava La realtà come costruzione sociale e non essendo né recente, né di moda credo che siano davvero pochi oggi a conoscerlo. A scriverlo furono due sociologi di origini austriache emigrati negli Stati Uniti: Thomas Luckmann e Peter Ludwig Berger, dove il primo era anche filosofo mentre il secondo addirittura teologo. Il lavoro che si ascrive al filone della “Sociologia della Conoscenza” è tutto quanto interessante. Lo è in particolare l’idea costruttivista che quella “realtà” che tutti diamo per scontato essere un dato di fatto, possa essere considerata figlia di una cultura relazionale umana, un mindset trans-generazionale.

Oltre all’idea in sé, ad affascinarmi furono però soprattutto i primi passaggi in cui gli autori ci chiedevano di immaginare che alle nostre origini ci fossero stati dei naufraghi provenienti da territori e culture sconosciute. Approdati in un’isola deserta dopo qualche giorno avrebbero scoperto la necessità di sopravvivere e che per conseguire questo fine avrebbero dovuto spartirsi i compiti definendo delle routine di comportamento basilari. Ben presto azioni semplici si sarebbero raggruppate e poste in relazione l’una con le altre in quelli che oggi chiameremmo dei framework, ossia degli “stampi” combinabili fra loro in modo tale da poter essere esportati, modificati, clonati, insegnati, tramandati.

Tutto questo processo lo si può chiamare Organizzazione ed il nostro Francesco Alberoni avrebbe definito “movimento” questa prima fase della trasformazione sociale. Ad essa si deve anche, sulla scorta di George Alexander Kelly, la capacità previsionale delle persone che vivono in quel gruppo.

A mano a mano che i framework aumentano e soprattutto con il trascorrere delle generazioni, le ragioni che dovettero spingere i padri fondatori ad organizzarsi in determinate maniere finiscono per essere dimenticate: «Si fa così perché si è sempre fatto così e perché non avrebbe senso comportarsi diversamente. Si dà un nome a quegli aggregati di schemi e a quel punto non si interviene più attuando dei comportamenti organizzati, ma imprimendo il potere del nome e della legge che lo accompagna e che va trasmessa alle generazioni seguenti come nome e come regola superiore.

Questo livello indiscusso e indiscutibile si chiama Istituzione e viene considerato di gran lunga superiore all’organizzazione — con la quale nutre comunque un rapporto dialettico competitivo — e quindi ai singoli soggetti e a tutte le persone al cui interno vivono.

Tutta questa faccenda che riguarda in parte l’imbastirsi di quel tessuto che definiamo realtà e che in ultima analisi non riguarda la cosa in sé (che in quanto tale non è autoesplicativa) ma la sua rappresentazione, ovvero il come guardiamo la cosa e come intendiamo le sue relazioni con le altre cose e le azioni e quindi gli altri e, in ultima noi stessi, serve per arrivare a dire che, se già la parzialmente fisiologica perdita di consapevolezza delle nostre origini ci indebolisce, credere che quello con cui abbiamo a che fare in termini di istituzione (religioni, giustizia, politica, accademia…) detenga elementi di verità per il semplice fatto di non poter essere messo in discussione risulterà essere assolutamente distruttivo per la civiltà e per la nostra cultura umana attuale. Inoltre, l’attuale globalizzazione delle politiche e dell’economia rende ulteriormente impraticabile il dibattito e quindi anche l’organizzazione, quella che si diedero i nostri “naufraghi” primigeni e che non dovremmo mai smettere di rinnovare, i comportamenti personali e sociali e, in definitiva le azioni. E chi non può agire diventa per questo im-potente (cosa che si sta verificando anche a livello genetico) e quindi evolutivamente recessivo.

Dall’immagazzinamento all’intelligenza artificiale

Sappiamo che alle origini l’essere umano era fondamentalmente nomade: si tratteneva in un luogo il tanto che bastava per consumare o trattare gli alimenti per poi cercare nuovi territori di approvvigionamento.

Poi imparò ad allevare il bestiame e a lavorare la terra e questo fece sì che potesse stabilirsi nelle regioni in cui poteva vivere meglio, sia per condizioni ambientali favorevoli, sia per un rischio più ridotto di aggressioni umane, animali o fisiologiche. Questo gli permise di accumulare le riserve alimentari e le risorse di parentela. Perse in questo modo la sensibilità al presente, al qui e ora, e cominciò a pianificare il suo futuro forte di un passato che legittimava la sua esistenza in termini di identità: “Lei non sa chi sono Io!”

Anche il linguaggio si consolidò attorno a questa presunzione di appartenenza e il sapere, correttamente definito da Aldo Gargani come “una paura che si è data un metodo”, aveva a che fare, sì con la presunzione di identità, ma anche con l’anticipazione di rischi e vantaggi.

L’insegnamento, la scrittura, la stampa e quindi l’informazione e la conoscenza testuale, i libri, i media radiofonici, televisivi, informatici e così via nascono da questa condizione; ma anche la salute, la legge e altri aspetti fondamentali della nostra esistenza hanno luogo una volta abbandonata la condizione precaria di cacciatore nomade. E se tutto questo ha migliorato le condizioni di vita permettendo lo sviluppo di valori e saperi, dall’altro ha reso più ambizioso e “letteralmente presuntuoso” il proprio status materiale.

Oltre allo sviluppo di valori di materialismo, proprio il ripetersi di azioni e comportamenti tipico di una società basata sulle istituzioni, quei cliché indiscussi e indiscutibili di cui abbiamo parlato, ha spostato il lavoro sul piano procedurale spingendoci ad automatizzare i comportamenti utili, dalla produzione, all’amministrazione, dalla didattica all’informazione, dalla salute agli eserciti e così via.

Materialismo e soprattutto automazione stanno da sempre, e in questi tempi di machine learning e deep learning — ovvero di delega alle macchine dell’istruzione che impartiscono a se stesse — ancor di più, escludendo dai nostri fini l’esplorazione e la ricerca: in una parola, lo stupore. Per stupirsi il bambino deve totalizzare l’osservazione e la percezione; è indispensabile una certa ingenuità come valore, guardare ai fenomeni per come appaiono e non per la spiegazione preventiva che viene data al loro proposito.

Per fare un esempio, spesso si dà colpa ai computer di cose come la perdita del lavoro o della conoscenza, ma è sbagliato. Intanto perché si dimentica che il computer non fa altro che rendere più veloci e complesse delle attività procedurali che già esistevano precedentemente (guardare l’inizio del film Brazil per capire di che cosa sto parlando). Poi perché non si comprende che nella scienza dei computer esistono due approcci: da un lato c’è quello dell’automazione ben perseguito da tecnici elettronici come Von Neumann che hanno le loro origini culturali in Francis Bacon e nei primi macchinari digitali come quelli tessili; dall’altro c’è quello cibernetico che parte da pensatori come Wiener e  Vannevar Bush e Ted Nelson ma soprattutto da Douglas Engelbart. Quest’ultimo fu padre dell’idea di un’informatica come “augmentation” delle capacità umane direttamente antitetica alla loro contrazione a procedure ripetitive e quindi all’asservimento al potere procedurale dell’automazione(1).

La globalizzazione ha esasperato questi aspetti istituzionali della cultura umana considerando fondamentali i valori materiali e lo sviluppo dell’automazione. Tuttavia, se la cultura del cacciatore ad un certo punto ha finito per indurre a cacciare se stessi una volta esauriti gli animali, sviluppando l’arte del conflitto e della guerra, la ripetitività, la riproducibilità riduttiva e riduzionistica dell’allevatore sta sempre più generando allevamenti umani e perfino stabulari sociali.

Nella notte dei tempi la trasmissione degli insegnamenti avveniva probabilmente per emulazione dei comportamenti, per vicinanza, prossimità, osservazione, imitazione; poi i saggi o i maestri presero ad usare la parola per veicolare gli insegnamenti, la parola e la vicinanza, sempre l’osservazione. Gli esempi da imitare e i sapienti da ascoltare e seguire avevano però il difetto di essere a scadenza e quasi mai i loro allievi potevano dirsi fedeli eredi di quei saperi: a mano a mano che le generazioni si susseguivano l’insegnamento si annacquava e si avrebbe desiderato che fosse conservato e tramandato “come se” si avesse davanti l’autore originario. Fu la volta degli scribi che trasmisero qualcosa di quanto potevano (e per quanto venivano pagati). Anche i loro scritti faticarono parecchio per arrivare fino a noi ed è noto il caso dell’incendio dell’antica Biblioteca di Alessandria d’Egitto che vide scomparire la memoria di secoli di conoscenze. Alcuni monaci amanuensi nel medioevo cercarono di recuperare alcuni tesori che altrimenti sarebbero stati destinati all’oblio. Anche loro fecero quello che potevano, considerato tra l’altro che il loro lavoro non poteva essere applicato agli autori considerati pagani. Papiri e carte scritte a mano erano beni molto preziosi, ma non avrebbero potuto arrivare a tutti. Questo fu possibile con l’invenzione della stampa a caratteri mobili che diede forma al libro come lo conosciamo oggi. Insetti, batteri, guerre, tuttavia, non risparmiarono nemmeno questi. Il alcuni casi furono i microfilm a salvare molti libri e poi l’acquisizione tramite scanner. Tutto ciò comportava molto lavoro e si sa che la cultura paga poco. Quello che avvenne con il libro fu il moltiplicarsi del materiale e degli autori; molti di quelli celebri non li possiamo assolutamente considerare fondamentali e spesso si è trattato di lavori sprecati. Con il self publishing, i blog, i podcast, gli audiolibri i contenuti hanno preso a superare grandemente la capacità di seguire da parte dei lettori e i testi hanno spesso perso di valore proprio in considerazione di un’inflazione scarsamente curata, sostenuta, spiegata, selezionata, curata. Nelle case le biblioteche spesso imponenti che facevano l’orgoglio dei loro possessori oggi vengono mandate al macero e, mentre resistono un’infinità di inutili romanzi di intrattenimento più o meno di massa, altrettanto non si può dire dei saggi, dei testi teorici, di molte opere di spiritualità e di testimonianze di valore storico. Questi libri non interessano più a nessuno e difficilmente superano i pochi anni nei magazzini di editori e distributori; men che meno nelle case.

«Che cosa vuoi tenere tutta questa carta ingombrante quando ormai tutto è digitale», dicono i giovani e molti dei meno giovani che poi però chiedono di leggere qualcosa che non troveranno più e che presto scomparirà assieme alla memoria di chi l’aveva letto. L’inflazione dei libri porterà molti a convergere sui titoli graditi alla massa e si comincerà a dire: «Che cosa vai cercando in giro quando tutto è scritto in questi libri qui?». Quando la carta sarà quasi tutta sparita un giorno potranno andare in crash i server sparsi in tutto il mondo e con essi scomparirà gran parte dei lavori, soprattutto quelli che hanno avuto meno successo e si penserà «Poco male, ci sono quelli che bastano e poi c’è la televisione che ci dice tutto: quello che accade e quello che dovremmo sapere di quanto è accaduto». Come animali da allevamento avremo perso la capacità di scegliere la libertà di volere, presi solo da un’ebete convincimento di confort e salute. Non c’è bisogno di andare troppo lontano, vero? I casi sono spesso già davanti ai nostri occhi, ma molti non se ne accorgono perché è subentrato il meccanismo di fiducia nell’istituzione. Come abbiamo visto prima:

Le forme istituzionali sono il consolidamento di abitudini non più soggette a messa in discussione all’interno delle personali zone di comfort

Proprio come i naufraghi, tutta la nostra capacità innovativa ci avrà condotto ad una grande omologazione basata sulla fede, sulla fiducia in una chiesa o in un’università, in un cardinale o in un professore, complessivamente in uno status quo.

Un, due e tre

Se tutto fosse così uniformato le cose forse sarebbero troppo semplici e presto ci si troverebbe a tappare buchi imprevisti. Quello che salva la manovra di uniformazione è proprio la dialettica, la polarizzazione delle opinioni che tiene impegnata la massa nell’illusione di un’alternativa che spesso nasconde degli impliciti determinanti.

Facciamo l’esempio della grande discussione in atto attualmente a proposito dei vaccini nel cui merito non intendo assolutamente entrare. Il mondo è diviso fra quanti sono per la vaccinazione, per convinzione o semplicemente per quieto vivere e quelli che a questa si oppongono (e qui non entro nel merito del Green Pass che è altra cosa, ma spesso artatamente omologata al cosiddetto “vax” e “no-vax”). Viene fomentata una tifoseria analoga a quella delle squadre di calcio fino a portarla ad un vero e proprio odio reciproco: si ucciderebbero o ballerebbero sulle tombe degli altri e tutto ciò in nome — pensa un po’ — della salute. Quando i miei colleghi psicologi e psicoterapeuti il più delle volte facevano eco alle testate di moda che avevano inaugurato la contrapposizione vaccinale facendo la guerra alle medicine alternative, in particolar modo alle cure omeopatiche, non si rendevano conto che presto lo stesso discredito sarebbe sarebbe stato diretto anche alle psicoterapie, colpevoli di fare spendere inutilmente troppi soldi ai clienti procrastinando all’infinito il disagio, quando con qualche pastiglia passa tutto e tutto torna normale. Siamo felici grazie alla materia. Siamo in salute con gli elementi inanimati. Presto — non ascoltare i negazionisti che tendono a sminuire l’argomentazione accusandola di un complottismo che dalla percora Dolly a oggi ci ha visti ricrederci frequentemente — presto, dicevo, avremo delle cure genetiche che modificheranno emozioni e comportamenti per renderci tutti normalmente omologati e salutarmente felici. Avremo il nostro posto nel “Nido del cuculo” e ci combatteremo fra fazioni e tifoserie per conservarlo, proprio come nella bicicletta si è costretti a pedalare se non si vuole cadere.

In questa guerra non ci si rende conto di quanto la salute diventi in entrambe le posizioni, invece che una condizione per vivere, un mezzo per evolvere, il fine stesso della battaglia.

Tutta la storia del pensiero è perseguitata da una falsa alternativa che contrappone unicismo e dualismo, un Dio che contiene tutto oppure un Bene che contrasta il Male e viceversa.

La medaglia ha solo testa oppure croce. È lapalissiano, no? Nessuno nota il taglio fra i due lati, la materia di cui è fatta, il dito che la lancia per aria. I prestigiatori su questa inclinazione al pensiero stereotipato contano per distrarre dai loro trucchi che si basano su questo.

Non si può respirare continuando ad inspirare all’infinito per ingordigia d’aria: prima o poi ci si deve fermare a costo di soffocare. Così, non si può espirare in eterno per espellere tutte le tossine e i malanni che abbiamo in corpo perché così si soffocherebbe, tossine comprese.

La risposta non può essere insita in un monoteistico “Uno”, ma nemmeno in un manicheistico “Due”: come inspirazione ed espirazione, l’uno non può esistere senza l’altro ma non possono agire insieme. Occorre il terzo che è tutt’altro che “non dato”. Occorre il “Tre” è rappresentato dal ritmo che guida l’alternarsi delle correnti fisiologiche, il roteare della testa. È il tre non chiude il sistema ma piuttosto lo apre alla molteplicità. Nella guerra tra sostantivo ed attributo vince il verbo, vince l’azione. L’azione crea mondi, crea realtà organizza, media il dibattito, ci permette di cantare e soprattutto di ballare e in tutto ciò il corpo è un mezzo importante per permettere alle anime di incontrarsi e di roteare negli spazi fisici e soprattutto in quelli dell’immaginario.

La vita è molto più ricca delle nostre capacità di attenzione e dei soliti canali. Occorre spegnere tutto quello che si può, fare silenzio e osservare, osservarsi, in salute o in malattia, seguire la trama della propria esperienza nel mondo. Occorre spegnere lo smartphone, fermare l’auto e osservare il colore screziato delle foglie autunnali, le caduche verde tenuo foglie bilobate del gingko e le cremisi acceso dell’acero giapponese; respirare l’aria dal ponte; guardare gli uccelli appollaiati sui tronchi arenati sul fiume. La poesia scorre nei nostri cuori e dobbiamo farla nostra e contaminarla. Contagiare il valore dell’esperienza come dono che porteremo con noi in questa cosa che non sappiamo bene che cos’è, ma che se il tuo cuore non è definitivamente spento dalle amarezze e dai condizionamenti negativi, al solo pronunciare il suo nome si riscalderà di speranza e si aprirà all’infinito.

Prova a dirla ora, sussurrala, e se riesci amala, amati:

«Anima»


Note

(1) La carriera di Engelbart è stata ispirata nel dicembre 1950, quando era fidanzato e si rese conto di non avere obiettivi di carriera diversi da “un lavoro stabile, sposarsi e vivere felici e contenti”. Per diversi mesi ha ragionato che:

  • avrebbe concentrato la sua carriera nel rendere il mondo un posto migliore
  • qualsiasi sforzo serio per rendere il mondo migliore richiederebbe un qualche tipo di sforzo organizzato che sfruttasse l’intelletto umano collettivo di tutte le persone per contribuire a soluzioni efficaci.
  • se potessi migliorare drasticamente il modo in cui lo facciamo, aumenteresti ogni sforzo del pianeta per risolvere problemi importanti: prima è, meglio è
  • i computer potrebbero essere il veicolo per migliorare drasticamente questa capacità.
    da Tia O’Brien (9 febbraio 1999). “L’eredità duratura di Douglas Engelbart”Notizie di San Jose Mercurydall’originale il 7 luglio 2013. Estratto il 4 luglio 2013.

Le Annotazioni da cui sono partito per scrivere (alcune cose ci sono altre no)

Negare la storia; rimuovere il libro e poi il digitale perché automatico; la nascita dell’istituzione e la perdita della consapevolezza; la storia da manipolata a rimossa; l’assoluto presente non è la presenza; materialismo e Automazione. Relatività assoluta ridotta a conflitto. Rifondazione deistituzionalizzata dal singolo (evento, soggetto…) spirituale, bilanciato, Transpersonale. Il sacro civile. Il timore del virus materialistico è materialistico; caccia all’omeopatia, psicoterapia vs. farmaco-droga; religione; da libertà di idee a nemici; inquisizione