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Manuale di Stile | Un estratto

Manuale di Stile | Un estratto

Quanto segue è un estratto dell’ultimo capitolo che ho scritto di un libro dedicato al lavoro dello psicologo, del terapeuta, del counselor, dell’educatore e di molti altri, ma in fondo potremmo parlare di quello di aiutare il prossimo a trovare un cammino nella propria vita.

Non poteva non partire da quello che sono, ovvero uno psicologo e un terapeuta che ha riscoperto la tradizione della semplicità, dello sciamano, non quello che fa magie straordinarie, ma quello che si immerge nella pratica ordinaria di tutti i giorni con tutte le contraddizioni e le frustrazioni del caso.

Per ora si chiama Manuale di Stile, per dire che tante teorie non valgono la qualità che caratterizza il modo che ognuno di noi ha per avvicinare il prossimo.

Lo scritto che segue è l’inizio di un capitolo dedicato alle tassonomie: a quelle dello psicopatologo e quelle di quello che sa ascoltare e starti vicino con coscienza di causa…

Diverse tassonomie

Classificare humanum est

Normalmente sopravvalutiamo tutto ciò a cui è stato dato un nome. Quando a conferirglielo è poi qualcuno cui sia stato attribuito un qualche titolo di legittimazione, quel nome si trasforma in identità. Da qui nasce un po’ tutto, dai nomi delle malattie a quello delle parti del corpo, fino alle particelle subatomiche. È quello che noi costruttivisti consideriamo essere il primato linguistico sulla conoscenza. Questo fenomeno si spinge fino a quello che consideriamo essere il nostro “Io”. Come mi piace dire, al di fuori del suo essere “la prima persona del verbo” non esiste alcun altro oggetto o soggetto con quel nome. “Io” è l’attore quando parla in prima persona che, a forza di essere evocato, finisce per farci credere che coincida con la continuità di quell’esperienza soggettiva.

Questo tipo di dibattito,tuttavia, ci porterebbe in un territorio lontano dai temi qui affrontati che ho già trattato altrove su cui spero presto di ritornare con maggiore organicità. In questo momento vorrei occuparmi solo del nome che diamo ai nostri problemi.

Quando, magari durante un corso, qualcuno ti domandasse «Chi sei?», tu che cosa risponderesti?
Io, ad esempio direi: «Ciao. Sono Ennio Martignago e sto scrivendo quello che potrebbe diventare un libro, eccetera, eccetera…». Non importa che cos’altro direi, sta di fatto che quello che non metterei in discussione è il fatto di essere “Ennio”. Ci mancherebbe altro. A chi dei lettori non manchi l’esperienza di avere un figlio non sarà del tutto estranea l’osservazione che per un certo periodo di tempo quell’essere non è stato ancora quello che avrebbe avuto quel nome. Per alcune ore o giorni io di certo non ero ancora “Ennio”. Ero forse un UFO (un oggetto frignante non identificato) che poteva aver portato una forte emozione a mamma e papà. E di certo non era un mio problema essere “Ennio” o “UFO”. Un giorno qualcuno avrà chiesto ai miei genitori: «Che nome avete poi dato a UFO?» e loro avranno risposto qualcosa del tipo: «Mah… pensavamo di chiamarlo Calogero o Vercingetorige ma, visto che avrebbe avuto già un cognome abbastanza lungo, gli abbiamo scelto un nome più corto e abbiamo deciso di chiamarlo “Ennio”».
In definitiva, per un po’ di tempo non ero “Ennio”: semplicemente mi chiamavano così. Il nostro cane lo chiamiamo in tanti modi, ma quello a cui risponde meglio è il suono di fare schioccare la lingua sui denti, qualcosa che potremmo scrivere come “Tzhk”. Vedo già Yoyo andare ad un corso per cani con gli altri che gli chiedono «Tu chi sei?» e lui risponde: «Ciao, io sono Tzhk e vengo in pace».
Una domenica mattina mia madre interruppe il mio beato sonno di studente entusiasta perché alla radio avevano spiegato che si era scoperta la causa della pressione alta che già a quel tempo frequentavo. Ora si sapeva che dipendeva da una cosa che si chiama “Ipertensione”. Il potere di oggettivare un’esperienza vissuta con il conferimento di un nome ha diversi utilizzi pratici, come evitare di ripetere ogni volta la descrizione dell’esperienza quando ne si parla.
Con il tempo, a forza di sentire la corrispondenza della parola “Ennio” con il fatto che ci si rivolgesse a me, mi sono abituato a sentirmi chiamare così. Ennio era il mio Tzhk. Quando ho cominciato a parlare a mia volta, ho cominciato ad attribuire alla prima persona del verbo l’alternativa del mio nome: Io equivaleva a dire Ennio e per un’ovvia legge di corrispondenza, Io sono Ennio. Ed “Ennio”, proprio come “Io” non era più un’etichetta per un’esperienza, ma un personaggio, un’unità, un’identità al di là dei comportamenti, dei verbi con cui si declinava. Ennio era quello che i filosofi chiamano un’entità ontologica. Tutto sommato, però, non era molto diverso da un tavolo o un martello. Infatti, anche per il tavolo, quando un ospite extraterrestre in casa nostra ci chiedesse: «E questo che cos’è?» noi risponderemmo «Questo È un tavolo», anche se sarebbe stato corretto dire “si chiama” tavolo. Un lettore sbrigativo potrebbe pensare che si tratti della stessa cosa, ma non è così. “Essere” e “Venire chiamato” una certa cosa comporta due vissuti molto diversi che solo la cancellazione di uno dei due usi della parola per questo caso ci permette di superare.

Tassonomie mediche

Quando chiamo cacciavite quello strumento, mio cognato esperto, tra l’indignato e il sardonico, precisa: «Quello non è un cacciavite: è una chiave a brugola». Per me non cambia nulla, ma per lui sì. Anche gli oggetti, non solo i soggetti, hanno una loro dimensione ontologica.

E questo vale anche per le malattie. Anche per l’ipertensione che va distinta fra “chiamarsi” ed “essere”. Quando diventa “essere” però acquisisce potere. Il medico che dice ipertensione genera nel paziente un effetto simile a quello del ladro che porta l’attenzione della sua vittima su un oggetto diverso e impegnativo per sfilargli meglio il portafoglio.

L’idea che le “anormalità” o devianze del comportamento e della cognizione appartenessero al regno delle “malattie” non è qualcosa che sia sempre esistito. In quasi tutte le accezioni ha preso a svilupparsi attorno all’illuminismo. Non che prima le cose andassero meglio: semplicemente non era stata sviluppata questa accezione, questo salto di significato del concetto di malattia, che passava dall’appartenere al mondo della fisica e della morbilità, come nel caso della scarlattina o dell’infarto, a quello del gesto e delle parola. Un po’ come se un domani chi non vota per un partito di centro, chi fa sciopero o chi scegliesse il sacerdozio fossero considerati dei particolari tipi di malati.